8.3.08

IL MITO DI ANTIGONE NELLA SINISTRA ANTAGONISTA

Per Giuseppe Bailone (Universita Popolare di Torino)

In Germania
Ottobre 1977: nel carcere di Stammheim presso Berlino ci sono tre cadaveri di cui diverse città tedesche rifiutano la sepoltura.
Sono i giorni del rapimento e dell’assassinio di Martin Schleyer, presidente degli industriali tedeschi, del dirottamento aereo di Mogadiscio.
I tre cadaveri (assassinio o suicidio?) sono dei detenuti del gruppo Baader-Meinhof.
La Germania rivive la tragedia della mitica Tebe.
Ritorna il divieto di Creonte.
Ritorna anche, aggiornata, la ragione politica di quel divieto: la democrazia non può rispettare i diritti di chi non li rispetta e l’aggredisce con le armi.
Ritorna anche Antigone?
Ritorna, sostiene Rossana Rossanda, in un saggio del 1987, ma è “un’Antigone di silenzio (…) perché oggi non soccorrono più le leggi che sono sacre sottoterra”.
Il venir meno delle leggi divine, travolte dalla secolarizzazione moderna, avrebbe ridotto al silenzio Antigone.
In realtà, Antigone non tace.
Il film collettivo Germania in autunno (1978) di Böll, Fassbinder, Kluge, Schlöndorff ed altri, presenta un quadro tedesco in cui Antigone si fa sentire ed il potere non è tutto allineato dietro le posizioni di Creonte.
Il sindaco socialdemocratico Manfred Rommel decide rapidamente, senza consultare il consiglio comunale, di aprire il cimitero di Stoccarda a quei corpi. Vuole evitare, dice, che la Germania discuta per settimane o mesi su quella sepoltura.
Agisce in lui un’esperienza eccezionale: il padre, “la volpe del deserto”, coinvolto indirettamente nell’attentato a Hitler del 20 luglio ’44 e costretto a scegliere tra l’arresto per alto tradimento e il suicidio, si uccise col cianuro ed ebbe solenni funerali di Stato. Il giovane Manfred vide gli onori funebri di Eteocle resi al padre che aveva evitato col suicidio la sorte di Polinice.
Germania in autunno ripropone quei funerali in posizione centrale, tra quelli dell’Eteocle Martin Schleyer, in apertura, e quelli dei Polinice di Stammheim, in chiusura.
Rimandano alla mitica Tebe anche altre parti del film: nei dialoghi di Fassbinder con l’amico Amin e con la madre ritorna più volte la discussione sull’aggiornata ragione del divieto di Creonte.
Un esplicito ed ampio riferimento del film all’Antigone è l’episodio di Schlöndorff: una versione televisiva della tragedia di Sofocle, a firma di Böll, già pronta per andare in onda in un programma dal titolo “I giovani incontrano i classici”, viene rinviata a tempi meno agitati e sostituita con un adattamento del De bello gallico: Sofocle appare pericoloso in quel clima (“non è consolante, dice uno dei censori, sapere che già nel quinto secolo avanti Cristo c’erano terroriste in azione”).
Antigone può compiere il suo rito, ma le sue parole vengono censurate dal potere televisivo.

In Italia
Nei primi anni ’80, nasce la rivista Antigone ad opera di un gruppo di giuristi, sociologi e giornalisti che si battono contro le leggi speciali e le procedure d’emergenza nella lotta al terrorismo. Intorno alla rivista nasce una organizzazione oggi ancora attiva.
Il ritorno di Antigone in Italia, però, risale al 1969.
Nel film I Cannibali di Liliana Cavani, Milano si presenta con le strade e le piazze sparse di cadaveri di una rivolta giovanile. Ci sono cadaveri anche sui treni della metropolitana. La gente passa frettolosa ed indifferente evitando ogni contatto con quei corpi perché lo Stato (una specie di orwelliano 1984 capitalista) ne proibisce la rimozione e la sepoltura con la pena di morte. La televisione parla della rimozione dei cadaveri in termini di sottrazione e di furto di corpi dello Stato. Antigone, così si chiama la protagonista, decide, contro la legge, di dar sepoltura al cadavere del fratello contestatore. Tiresia, un giovane che parla, pochissimo, una lingua sconosciuta e disegna sui muri un pesce, l’aiuta nel gesto di pietà e di rivolta. Sepolto il fratello, essi continuano a dar sepoltura ai cadaveri. Il potere li arresta, ma non riesce a stabilire con loro alcun dialogo. Antigone, “la ragazza che ha osato rubare i corpi al popolo”, massacrata dalla polizia, non parla più e non sente le parole che le vengono rivolte. Il suo fidanzato Emone, scosso dallo stato in cui l’ha ridotta la polizia, si ribella al padre, primo ministro, e va a seppellire i morti. Subito arrestato, reagisce abbrutendosi: chiude ogni rapporto col padre dicendogli di voler diventare un animale e mettendosi a quattro zampe. La rivolta dei ragazzi, iniziata “rubando” corpi allo Stato, tocca, poi, l’ordine familiare e la repressione sessuale ed assume una radicalità estrema, indomabile, per la chiusura di ogni comunicazione. Antigone viene fucilata nella pubblica piazza insieme al suo amico Tiresia. “L’ordine è ristabilito” dice il comandante militare ad esecuzione avvenuta. Proprio allora, però, la loro ribellione diventa contagiosa e molti cominciano a raccogliere pietosamente i morti.
Liliana Cavani denuncia il sistema capitalistico che s’impadronisce delle persone ed arriva a considerare cosa propria anche i cadaveri dei ribelli. Indicando nella pìetas di Antigone la risposta, introduce un elemento originale negli sviluppi del movimento degli studenti che sta assumendo caratteri politici ed anticapitalistici sempre più netti.
Un’Antigone contestatrice sessantottina, però, non è più Antigone.
Solo nei versi 482-83 della tragedia di Sofocle la contestazione studentesca può trovare qualche cosa in cui riconoscersi: è l’insolenza di vantarsi e gioire della trasgressione che irrita profondamente Creonte.
La contestazione di Antigone non è antiautoritaria e libertaria come quella sessantottina, ma è in nome della superiore autorità degli dei.
La critica radicale dell’istituto familiare molto diffusa tra gli studenti, l’agire in massa e la passione politica degli studenti tengono lontana Antigone. La tensione emotiva, etica e religiosa di Antigone non assomiglia alla passione politica libertaria, festosa e, talvolta, violenta che si diffonde rapidamente tra gli studenti: Antigone, dopo il rifiuto della sorella, agisce da sola, con determinazione ma senza violenza; non si muove mai con prudenza politica, ma con la radicalità di chi si sente investita di un compito assoluto; non cerca la propria realizzazione nella lotta e non misura le forze. Il suo estremismo è di natura etica e religiosa, ben diverso da quello passionale degli studenti.
Milano nel 1969 non è Tebe appena liberata da un assedio terribile e da una guerra fratricida per la famiglia reale. La lotta degli studenti, anche se non manca della pratica della violenza, non è una guerra e, soprattutto, non è finita: sta confluendo nella tradizionale e, socialmente, ben più ampia lotta operaia, con reciproci effetti d’influenza.
La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre apre la lunga stagione del terrorismo con effetti di strisciante e parziale guerra civile.
Gli studenti si avvicinano ai tradizionali maestri del pensiero politico rivoluzionario e cominciano a vedere nella guerra partigiana una lotta interrotta che potrebbe riprendere; i contestatori si organizzano in formazioni che si dicono rivoluzionarie.
La contestazione diventa rivoluzione. Antigone si allontana sempre di più.

Antigone e la rivoluzione
La centralità della lotta di classe, l’accettazione ed anche l’esaltazione della violenza e dell’odio di classe fino alla rottura della solidarietà umana per una lotta in nome di una nuova umanità sono in aperto conflitto con la philìa di Antigone.
Antigone non è Polinice, né si è schierata a suo fianco nell’assalto al potere. In Edipo a Colono, ha accompagnato il padre in esilio e lo ha assistito con amore fino alla morte. Raggiunta da Ismene ad Atene, è venuta a sapere della lotta fratricida per il potere sulla città e dell’oracolo, secondo il quale avrebbe vinto chi fosse riuscito ad avere con sé il padre. Ha visto fallire Creonte nel tentativo arrogante di riportare Edipo a Tebe, prendendo in ostaggio le sue figlie. Liberata da Teseo, ha visto fallire anche Polinice, solo e supplichevole, nel tentativo di guadagnarsi l’appoggio del padre. Ha sentito il padre maledire i figli e predire la loro morte per mano reciproca. Ha visto Polinice, ormai certo di andare incontro alla morte, implorare da lei e da Ismene gli onori funebri. Ha cercato invano di convincerlo a fermarsi.
Le ultime parole di Antigone in Edipo a Colono ci dicono della sua volontà di tornare a Tebe e della sua speranza di fermare la strage dei fratelli.
Antigone compare, a Tebe, a guerra finita, per compiere un rito dei momenti di pace, dar sepoltura ai caduti e affidarli al regno dei morti.
Per Creonte, invece, la pace ha bisogno del cadavere di Polinice.
Creonte, a guerra finita, ha ancora l’animo in guerra e teme la sua ripresa. Antigone, che in guerra non c’è mai stata, non sopporta il suo prolungamento sui cadaveri.
Si apre un conflitto inconciliabile tra chi infligge una “seconda morte” al nemico ucciso e chi in quel corpo morto sente il proprio sangue.
Il diritto attico del V sec. nega ai traditori la sepoltura nei confini della patria, ma permette ai familiari di seppellirne le spoglie in terra straniera.
Perché Creonte sequestra il corpo di Polinice e lo tiene esposto in pasto ai cani e agli uccelli, vergogna orribile a vedersi?
Se, come sostiene Giovanni De Luna, la seconda morte parla dell’uccisore, “ne smaschera pulsioni istintive e scelte ideologiche, ne svela le intenzioni più recondite” , che cosa dice l’editto di Creonte?
Rossana Rossanda segnala la signoria “incompleta” di Creonte (successore al potere non per sangue ma perché fratello di Giocasta) e la sua paura che altri potenti possano alimentare la rivolta, indicandolo come usurpatore e sobillando con denaro i cittadini.
Acquisito il potere con la morte dei figli di Edipo, egli cerca di consacrarlo con gli onori al corpo di Eteocle, assunto a protettore della città, e con la seconda morte di Polinice, il cui corpo viene profanato con l’esposizione ai cani e agli uccelli, ma anche alla vista dei cittadini come pericolo in decomposizione.
Il potere di Creonte non si ferma davanti alla morte: si afferma anche sui due cadaveri e li usa a proprio sostegno e difesa; non li cede al regno dei morti dove per le leggi di Ade tornerebbero ad essere figli della stessa madre.
E’ la paura di perdere un potere insicuro che spinge Creonte a prendere decisioni opposte sul cadavere di Polinice: prima lo vuole insepolto, poi, messo in crisi dalla disobbedienza di Antigone e spaventato da Tiresia, decide di seppellirlo lui stesso, rendendogli, di fatto, onori pubblici.
Due opposti interventi del potere sul corpo del nemico ucciso.
Entrambi fuori misura. Per paura. Ad integrazione della legittimazione del proprio potere avvertita come insufficiente.
Anche nella decisione delle città tedesche del ’77 è evidente la paura e il bisogno di riconsacrare un potere messo in crisi.

La rivoluzione imita Creonte
Ma, ad imitare Creonte, negli anni Settanta, non sono solo le autorità costituite. Anche le forze della rivoluzione, nel loro assalto al potere, onorano i propri caduti e profanano la morte dei nemici.
L’11 aprile 1972 viene ucciso dai guerriglieri dell’ERP in Argentina Oberdan Sallustro, dirigente della Fiat Concord. La direzione torinese della Fiat fa affiggere migliaia di manifesti di cordoglio nelle sue fabbriche ed invita ad una fermata di cinque minuti.
Il neonato quotidiano Lotta Continua esalta, in prima pagina, il sabotaggio dell’iniziativa Fiat da parte degli operai che strappano i manifesti della Fiat e contrappongono al morto dei padroni i loro molti morti sul lavoro e, a pagina due, titola “Padroni in lutto per Sallustro giustiziato”.
Il giorno dopo, in prima pagina, un operaio Fiat intervistato dice: “Siamo stufi che la stampa, la radio e la TV facciano tanto casino per Sallustro e non dicano una parola su tutti i nostri compagni assassinati dal padrone in fabbrica (…) La morte di Sallustro è stato un invito a nozze per gli operai Fiat”.
Il 15 aprile, il giornale pubblica una fotografia di un manifesto di cordoglio della direzione Fiat imbrattato con due scritte di commento “operaio”: “Amen” in alto e “Non avete capito che vi vogliamo morti tutti?” in calce.
L’atafìa della mitica Tebe ritorna in termini rovesciati: non è Polinice ad essere tenuto insepolto dal divieto del potere, ma sono le forze della ribellione-rivoluzione che cercano di sabotare i funerali solenni di Eteocle.
La foto si trova all’interno di un commento dal titolo “Sallustro in Italia e la guerra di classe”, che conclude:
“Quando uno sfruttatore crepa, noi non ci commoviamo. Ma il problema non è qui. Il problema è quello di una guerra inconciliabile, in cui ogni atto, ogni avvenimento va misurato con la necessità della vittoria (…) L’esecuzione di Sallustro è stata la giusta prosecuzione militante di un movimento di massa forte, cosciente, contro cui il potere imperialista scatena tutto il suo feroce armamentario. Non è stata un’azione disperata, né una scorciatoia rispetto alla strada maestra della lotta di massa. Così l’hanno vista, così la fanno propria i proletari anche in Italia”.
Il 18 aprile Adele Cambria, direttrice responsabile del giornale ma non allineata politicamente con Lotta Continua, esprime il suo dissenso con una lettera ai “Cari amici di Lotta Continua”.
Spiega: “Dico amici e non compagni, perché, per la mia estrazione e per la mia pratica di vita borghese non voglio arrogarmi un “titolo” che non mi spetta”. Poi dice di aver “letto con dolore” quanto scritto dal giornale sulla morte di Sallustro; si dice convinta che la morte di un uomo non possa essere un invito a nozze per nessuno, che non sia stato l’ERP ad uccidere Sallustro ma la Fiat, “la stessa azienda che uccise Gaetano Milanesio, folgorato alla linea delle 5oo”.
Il giornale aveva, l’11 aprile, dato notizia di due morti: quella del giovane operaio Milanesio, per infortunio, e quella del generale argentino Juan Carlos Sanchez, ucciso da guerriglieri, con i titoli: “Un altro omicidio alla Fiat” e “Argentina: un altro boia giustiziato”.
Due morti divisi da una politica di guerra.
La discriminazione dei morti viene respinta radicalmente da Cambria anche con l’intero addebito della loro responsabilità alla Fiat.
Lotta Continua risponde: “Adele parla, e giustamente, del rovesciamento della cultura dominante. Ma ne fa un mito, e non riesce a vedere come già oggi una concezione del mondo nuova venga avanti con forza dalla lotta proletaria (…) Certo, nelle idee dei proletari, non tutto è giusto, non tutto è autonomo (…) Ma questo è sempre meno vero. Se nella risposta politica degli operai Fiat (…) si vede lo stesso cinismo, la stessa crudeltà con cui i padroni esercitano la loro violenza, non si capisce niente”. Insomma, gli operai non parlano di “umanità” “perché non hanno nessun privilegio da mascherare dietro le grandi parole interclassiste”, ma dalla loro lotta, anche violenta, nasce un nuovo vero umanesimo. E si approva non solo l’assassinio dell’ERP, ma anche l’azione degli operai Siemens “che hanno riportato in fabbrica di forza il loro compagno arrestato e licenziato per aver espresso solidarietà col sequestro di un dirigente aguzzino”. Conclude: “Senza mezzi termini: la “cultura” proletaria non ama i fronzoli, e ama solo le distinzioni essenziali”.
Lotta Continua è convinta che la guerra civile stia per cominciare: il primo numero del quotidiano si apre, l’11 aprile, con il titolo a tutta pagina: “Così i padroni e la DC si preparano alla guerra civile contro i proletari”; domenica 23 aprile, in terza pagina, titolo a tutta pagina: “Compagni partigiani tornate al vostro posto”.
18 maggio: “La posizione di Lotta Continua” sull’uccisione di Calabresi conclude: “un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.
21 maggio: nuova lettera di Cambria che esprime per il caso Calabresi la stessa totale disapprovazione del caso Sallustro e si dimette, ormai carica di denuncie quotidiane, dalla direzione del giornale. Lotta Continua la ringrazia esaltandone il coraggio e l’onestà, ma dicendo che “non è marxista” e che “politicamente è molto lontana da noi”.
Lo scontro tra Antigone e Creonte rivive tutto interno alla sinistra antagonista.

Antigone e la lotta armata.
Durante i funerali dei morti di Stammheim, von Trotta incontra Christiane Ensslin, sorella di Gudrun, la donna del gruppo, e ne resta così impressionata da ispirare a lei ed al suo difficile rapporto con la sorella Anni di piombo (1981). Il film non fa riferimenti espliciti all’Antigone, ma il pensiero che la scelta estrema della lotta armata abbia qualche legame con la disobbedienza nobile ed inflessibile dell’eroina tebana può essere suggerito da più di una scena in cui l’amore conflittuale delle sorelle Ensslin ricorda quello delle figlie di Edipo.
I dirigenti della televisione tedesca decidono di congelare l’Antigone di Böll per timore che si veda nell’eroina di Sofocle una terrorista ante litteram
Rossana Rossanda non esita ad annodare l’Antigone alla lotta armata. E scrive: “Il delitto politico, a differenza di quello comune, si vuole portatore di un’etica, «più giusta» di quella dello stato perché in qualche modo «palingenetica», vicina alle «leggi non scritte», come è in ogni fase prima ed estrema d’una rivoluzione. (...) La macchina politico/sociale è violenta, ma ammette soltanto un «non violento» modo di essere contestata. (…) Le Antigoni dei nostri giorni non contrappongono violenza a tolleranza, ma una violenza che credono liberatrice ad un’altra, meno visibile ma non per questo meno sterminatrice”.
“Quando il sangue comincia a scorrere per determinazione cosciente e rivendicata di alcuni invece che per il meccanismo astratto dei poteri, il conflitto fra morale e morale politica assume gli accenti tragici dei greci. Si contrappongono non più due idee del governo, ma due «morali» che si pretendono esaustive, e negatrici l’una dell’altra: quella che si definisce «rivoluzionaria» e, come Antigone, si autorizza durissima «per amore», e quella opposta che la bolla come agire criminale – reazione che va molto al di là degli interessi costituiti, tende a rifondare una sacralità dello stato”.
Ma, la disobbedienza di Antigone muove le sue mani a raccogliere un po’ di polvere ed a versare libagioni per una sepoltura simbolica, non ad impugnare le armi.
La lotta armata rivoluzionaria, invece, imita Polinice e arriva all’uso politico dei cadaveri alla maniera di Creonte: il rapimento di Moro, momento più alto della parabola delle Brigate Rosse, si conclude con un uso estremo del cadavere, fatto trovare in una posizione carica di significato politico.

Antigone e la svolta pacifista
La recente svolta pacifista sembra che avvicini l’antagonismo di sinistra ad Antigone, ma resta una distanza decisiva: se l’impegno per i diritti umani e l’abbandono della violenza avvicinano Antigone, la giustificazione storicistica della svolta è in aperto contrasto con il riferimento alle leggi non scritte, eterne e senza tempo di Antigone.
Marco Revelli, che insieme a Fausto Bertinotti e a Lidia Menapace, pone nel 2004 le basi teoriche della svolta pacifista del partito della Rifondazione Comunista, spiega che “la profonda cesura consumatasi (…) nel densissimo spazio temporale che va dalla caduta del muro di Berlino alla caduta delle Torri” impone ai marxisti di “lasciarsi trasformare” in senso non violento e pacifista.
L’avvicinamento alla pìetas umanitaria avviene per le “dure repliche della storia”, mentre Antigone guarda al cielo e all’eternità, all’assoluto.
Divinizzazione dell’attualità, in Revelli pacifista, trionfo del divino e dell’eterno sull’attualità, in Antigone. Storicismo da una parte e apertura della storia alla trascendenza dall’altra.
Marco Revelli ricorda Trotzkij e la sua apologia del terrore rivoluzionario che non ha retto alla “prova del tempo” e che la storia consegna e chiude nel passato. Ricorda l’intima lacerazione di Rosa Luxemburg (“nella mia parte più intima, appartengo più alle cinciallegre che ai compagni”), che, soffocata a suo tempo dai compiti imposti dalla storia, potrebbe riemergere con forza nella nuova condizione storica, liberata dalle “paralizzanti ipoteche novecentesche”: “la frattura di classe non scompare, certo, ma si relativizza di fronte alle minacce globali”; “il confine dell’antagonismo (…) spacca il nostro io”.
Il passo dalla centralità della lotta di classe a quella del “corpo a corpo con noi stessi” è molto lungo. Dietro l’intima ed umanissima Rosa Luxemburg che riemerge dai soffocanti compiti storici, si potrebbe presentare l’ombra di Antigone. Lo storicismo, però, la tiene lontana.

Antigone e i diritti umani
Certo, nella sinistra antagonista, la cultura storicista marxista non è la sola cultura: non mancano filoni di utopismo religioso e/o giusnaturalistico che avvicinano alle leggi non scritte di Antigone. Si tratta di filoni che aumentano di peso a partire dalla fine degli anni ’70, quando l’attenzione al dissenso dei paesi del socialismo reale e la crescente sensibilità per i diritti umani rilancia il giusnaturalismo, della cui lunghissima storia la trasgressione di Antigone rappresenta la stazione di partenza.
Rossana Rossanda sostiene, però, che Sofocle non ci autorizza a leggere Antigone “come modello dei «diritti umani» contro una «perversità autoritaria dello stato»”, perché questa tematica nascerebbe solo con la rivoluzione francese.
Lo storicismo marxista non permette alla Rossanda di avvicinarsi al giusnaturalismo e di vederne gli elementi di continuità profonda che portano ad Antigone.

“Laicità” dell’Antigone
Rossana Rossanda vede, invece, bene che il tema centrale della tragedia di Sofocle è “il come e fin dove del governo degli uomini. Quale ha da essere il patto che li lega? Quale il limite che questo patto non può varcare? Quale il rapporto tra l’autorità e il consenso?” Ritiene “che il ricorrere di Antigone nella cultura moderna venga da questa natura problematica e integralmente laica della tragedia”.
L’Antigone sarebbe “laica” perché in essa “gli dei non ci sono, non intervengono”.
“E’ come se nei figli di Edipo il destino giocasse le sue carte con mano leggera: a lui, Edipo, non era stato dato di scegliere, tutto gli era stato predisposto alle spalle, in modo che confuso, non sapendo, prima sbagliasse e poi ossessivamente cercasse l’errore. Eteocle, Polinice, Ismene e Antigone no: hanno in tempo una possibilità di scelta”. “Il margine fra l’io e il destino è aperto in tutta l’Antigone”. “Tutte le alternative sono chiare e aperte fino all’ultimo, e il phrónēma, un pensare – di Creonte, di Antigone – potrebbe evitarle”. “ Tutto nasce da volontà terrene”.
Rossanda ha ragione: tutto resta aperto fino all’ultimo e molte cose cambiano.
Creonte, sia pure tardivamente, esce dalla sua primitiva posizione e fa lui stesso, con le sue stesse mani, quel che aveva vietato.
Ismene prima si tira indietro, ma, quando vede la sorella compromessa, vuole generosamente condividerne la sorte.
Il coro passa da un’accettazione rassegnata, ma non convinta, ad una sempre più netta disapprovazione di Creonte.
L’azione di Antigone provoca radicali ripensamenti ma lei sembra non avvertirli o, addirittura, respingerli. Nel primo colloquio con Ismene, non avendo ottenuto la sua collaborazione immediata, rifiuta l’aiuto che potrebbe arrivare da un suo possibile ripensamento.
Non pratica e non tollera tempi di riflessione.
Il tempo matura i frutti della sua azione, ma per Antigone nulla cambia mai e si sente sempre sola. Non ha fiducia in nessuno e non spera nulla.
La protagonista di una tragedia problematica, aperta, non rivede il proprio rapporto con gli altri e non vede i ripensamenti che promuove.

Il rito, il simbolo e la lotta politica
Antigone compie due volte il rito di sepoltura contro il divieto di Creonte.
Non si ferma al primo rito rimasto nell’ombra.
Compiuto il dovere rituale, potrebbe evitare la pena della lapidazione. Perché ripete il rito allo scoperto, quando il sole è più alto in cielo e sembra fermarsi?
Forse, perché le guardie hanno tolto la polvere e rimesso a nudo il cadavere di Polinice? Ma l’intervento delle guardie non può annullare il valore rituale della prima sepoltura, né Antigone può pensare di mettere al riparo dalle fiere e dai rapaci il cadavere del fratello con una manciata di polvere e con le libagioni rituali, come fa la seconda volta.
Antigone compie un gesto rituale, ma anche simbolico.
Il simbolo si mostra e chiede riconoscimento.
Nel primo incontro con la sorella, Antigone respinge il suo invito a non svelare a nessuno il suo progetto e le impone di denunciarlo apertamente.
Davanti a Creonte presenta il suo atto come consapevole ed aperta trasgressione di un divieto ingiusto
Antigone apre una battaglia politica, non si limita a compiere il suo dovere familiare, il rito funebre.
Il prodigioso uragano di terra dà al secondo rito funebre forte risalto, accentuato dal sole che sembra fermarsi a guardare.
Le guardie, togliendo la polvere, cancellano il simbolo del primo gesto di Antigone. Creonte lo deforma qualificando il rito come frutto di corruzione venale.
Si apre un conflitto di significati. Antigone contesta il potere di Creonte di fare un editto che impone la trasgressione di una legge divina: non può limitarsi ad un’infrazione clandestina dell’editto che darebbe indirettamente dignità morale all’editto.
Al sovrano Antigone impone ragioni di coscienza religiosa e di nobiltà morale. Dalla clandestinità vergognosa il suo atto emerge a sublimità morale.
A Creonte parla dall’alto al basso ed al suo potere contrappone la stabilità delle leggi divine senza tempo e senza bisogno di scrittura.
La scrittura è uno dei prodigi umani, cantati dal coro, ma segnato dal carattere mortale e non divino dell’uomo. Ha inizio nel tempo e finisce nel tempo. Non vince il tempo. La scrittura delle leggi diventa il segno della loro instabilità, mutabilità, del loro nascere e morire.
Antigone respinge la solidarietà di Ismene che, con generoso slancio, non esita a condividere la sua condanna a morte. Il suo le sembra solo un amore “a parole”: non ha, fin da subito, agito con lei; le ha consigliato di compiere il rito nell’ombra (di non farne una battaglia politica).
Antigone vuole fatti pubblici, politici, simbolici.

La conversione di Creonte
Lo scontro con il figlio spinge Creonte prima al delirio e, poi, al ripensamento.
Emone manifesta rispetto al padre ma gli rivela che la città sta con Antigone. Gli consiglia di non essere ostinato e di riflettere sulla necessità, per chi governa, di tenere conto di quel che pensa la città.
Rossana Rossanda vede in Emone colui che “esprime il maturare della coscienza ateniese all’età di Pericle”, “il personaggio più moderno, il solo che ponga per terra e fra gli uomini il fondamento della legittimità”.
Creonte, sempre più solo, non accetta i consigli filiali di saggezza ed ordina che venga portata Antigone per ucciderla davanti al figlio, ma la fuga di Emone neutralizza il suo delirio.
Creonte decide di chiudere viva in una grotta Antigone, dandole solo il cibo necessario per evitare alla città la contaminazione per empietà.
E’ questa la terza e definitiva forma che assume la condanna, dopo la lapidazione pubblica, prospettata in apertura, e dopo la minaccia di ucciderla davanti ad Emone
Antigone ha vinto lo scontro politico e simbolico: Tebe è ormai con lei.
La sconfitta simbolica impedisce a Creonte di realizzare la primitiva condanna, che offrirebbe al simbolo vincente una visibilità esaltata.
La fuga irata di Emone gli sottrae anche la possibilità di ucciderla nel delirio davanti al figlio. La disperazione lo spinge a chiuderla viva nella tomba, per ricacciarla definitivamente nella clandestinità da cui è emersa con la seconda sepoltura.
La pena è terribile ma non è la morte: scelga lei, dice Creonte, se morire o, pregando Ade, ottenere di non morire.
Sepolta con il simbolo, resta a lei la scelta estrema.
Lo scontro con Tiresia rompe le ultime resistenze del tiranno.
Creonte riconosce il suo errore e decide di liberare lui stesso, con le sue mani, Antigone e di seppellire Polinice, convinto ormai “che la cosa migliore sia terminare la propria vita osservando le leggi stabilite”.
Seppellisce Polinice, ma è tardi.
Il suicidio di Antigone provoca, a catena, quelli di Emone e di Euridice e rende irreparabile e catastrofico l’errore politico, morale e religioso di Creonte.
Antigone, che non ha previsto la conversione di Creonte avviata dal suo gesto e non ha sperato in Emone, è morta senza accorgersi di aver vinto la sua solitaria battaglia politica.

Perché Antigone si uccide?
Ha investito tutta se stessa nel simbolo di cui è diventata l’incarnazione e, quando il simbolo, ormai vincente, viene sepolto nel buio e nel silenzio della grotta, decide di morire con esso e si uccide.
Ha affrontato la prospettiva della lapidazione per difendere un simbolo, ma non riesce a continuare a vivere quel poco che le condizioni della sepoltura le consentirebbero quando al simbolo viene tolta ogni visibilità. L’alienazione simbolica, il trasferimento della propria umanità nel simbolo di cui si mette al servizio, è totale. Senza simbolo non può continuare a vivere affidandosi ad Ade, o sperando che i frutti della sua azione maturino. Consuma l’estrema possibilità di scelta per uccidersi e perdersi con il suo simbolo.
Muove da principi indiscutibili e li rappresenta con tutta la forza di cui è capace. Inflessibile, non prende minimamente in considerazione le ragioni di Ismene, ne disprezza l’umana debolezza e ne respinge subito la possibilità che cambi idea e partecipi all’impresa. Agisce per il bene della città, ma non ha fiducia in essa e, neppure, nei familiari. Vive la battaglia politica come dovere morale e religioso della sua coscienza solitaria.
Creonte parte da posizioni politiche fuori misura, ma si ravvede e ritorna alle leggi religiose tradizionali per salvare la famiglia e la città. E’ un politico arrogante, insicuro, tirannico, ma capace di flessibilità politica.
Il martirio conclusivo ed oscuro, senza testimoni, di Antigone vanifica tutto il travaglio di pentimento che ha provocato in Creonte.
Il suicidio-martirio di Antigone resterebbe del tutto ignoto se non intervenissero Emone in soccorso, non sperato, e Creonte, pentito non previsto.
Muore ridotta a simbolo, ma sono gli altri a dare significato al suo gesto estremo.

Un breve cedimento
C’è, però, un passo, sulla cui autenticità i commentatori si sono divisi, in cui Antigone si riprende la sua umanissima soggettività, immediatamente prima di essere chiusa nella caverna tombale.
E’ un momento di cedimento, di smarrimento della funzione che si è assunta e in cui si è ormai totalmente identificata: non sono più le leggi divine, non scritte e senza tempo, la ragione del suo comportamento, ma una ragione personalissima e un po’ in delirio, la disperazione di non poter riavere un altro Polinice dai genitori.
Privata del simbolo in cui s’identifica e che sta per essere chiuso al mondo, si ritrova per un attimo sola con se stessa. Dalla solare donna simbolo di valori universali si stacca un oscuro residuo di umanità estremamente particolare.
E’ però un breve cedimento. Antigone si riprende subito e si congeda, ricordando alla città di essere la sola rimasta della stirpe regale e di soffrire per aver onorato la pietà.
Si richiude nel simbolo con orgogliosa fierezza e va a morire con esso.
Si porta, però, con sé l’intera eredità di sangue di Laio. Cancella la sorella Ismene dalla famiglia reale e sferra un insidiosissimo attacco al potere di Creonte: indirettamente, infatti, evidenzia la sua parentela non di sangue con la famiglia reale e l’empietà, due forti appigli per la stàsis, la rivolta che sempre cova nella vita delle città greche.
Il coro finale sentenzia: la saggezza s’impara con la vecchiaia, con i duri colpi che umiliano i prepotenti.
Creonte, sbagliando gravemente, impara la lezione.
Antigone, aggrappata a leggi eterne, non sa muoversi nel tempo, non ha dubbi né pause di riflessione, agisce impaziente, determina il corso delle cose, ma non dà tempo ai frutti della sua azione di maturare. Rovina se stessa, la famiglia e la città. Dissipa il bene che, senza crederci, ha prodotto.
Senza crederci. Perché Antigone non solo disprezza l’arrogante tiranno, ma anche l’umanissima sorella. Non ha nessuna fiducia nella città, negli altri, neppure in Emone. Crede solo in se stessa ridotta a simbolo.

Pietà e spietatezza
La sinistra antagonista, col suo storicismo, si chiude nella storia e si perde in essa, cercandone il senso nei suoi eventi epocali, Antigone si colloca interamente al di sopra e al di fuori della storia, con rovina sua e degli altri.
Sembrano opporsi diametralmente, ma nella storia della sinistra antagonista non mancano momenti di alienazione simbolica, di azione dimostrativa, antipragmatica ed incurante dei risultati effettivi.
Lo storicismo non tiene lontano il “male” antigoniano, ma se lo porta dentro, sostituendo alle leggi eterne la missione storica, sul cui altare vengono bruciati principi di solidarietà umana, compiti familiari, rapporti di amicizia e le persone in carne ed ossa. La militanza rivoluzionaria come radicale scelta di vita riduce molte persone a funzionari della rivoluzione; molti obiettivi sono perseguiti per il loro valore simbolico, indipendentemente o, anche, contro la loro opportunità politica.
L’uccisione di Moro è un gesto di forte alienazione simbolica: arrivate al “cuore dello Stato”, fallito lo scambio con i prigionieri che avrebbe legittimato la loro pretesa di essere trattati da pari dal potere, le Brigate Rosse non sanno fare un passo indietro e si tengono quel cuore uccidendolo.
Anche la posizione di Lotta Continua sul delitto Calabresi ha i tratti dell’alienazione simbolica: costruito il simbolo negativo con una lunga e martellante campagna, Lotta Continua vede realizzata nella liquidazione omicida di quel simbolo la volontà di giustizia degli sfruttati.
Resta una differenza: Antigone s’irrigidisce in simbolo per pietà, la rivoluzione degli anni Settanta s’impone invece, per promuovere l’avvento di una futura ed autentica umanità, il dovere della spietatezza, dell’uscita dai confini della comune umanità.

Giuseppe Bailone


Università di Torino e Centro Studi sul Teatro Classico

8-9 novembre 2007


Relazione al convegno
Antigone
immagine di un enigma
da Sofocle alle Brigate Rosse

16.2.08

Sin Marini



Dr. ANSELMO MARINI

2002-14 DE FEBRERO -2008

En 1963, en los comicios que llevaron a Arturo Illia a la presidencia, fue elegido Gobernador de la Provincia Don ANSELMO MARINI en donde desarrolló una importante obra de gobierno y aplicó una ejemplar austeridad que comenzó con sus propios gastos, a tal punto que carecía de auto y cuando lo necesitaba, se lo prestaba el presidente del Banco Provincia.

No vivió en la Residencia que corresponde al Mandatario Provincial,a la que dio un destino cultural.

Radical de toda la vida, su ficha de afiliación está registrada en los archivos del partido desde 1922— en este realizo un verdadero cursus honorun, fue concejal platense, legislador provincial, parlamentario, convencional constituyente,Gobernador y finalmente Embajador del Peru durante el gobierno de Alfonsin.


Una vez refiriéndose a su gobernación dijo "me afectó el golpe de Estado porque dejó a mitad de camino una obra que estábamos realizando. Teníamos comedores, escuelas, caminos, era una obra que continuaba. Nosotros teníamos la idea de que gobernar era servir. Yo fui gobernador y nunca tuve idea del poder

Marini vivió siempre en una modesta casa de La Plata, ubicada en 2 y 45, con su esposa Edith, a la que según el confeso conoció en un acto político en la localidad de Los Toldos, una hija, 7 nietos y varios bisnietos. Apasionado pincharrata, hombre cabal, austero, transito hasta el día de su muerte entre el cariño y el reconocimiento respetuoso de sus conciudadanos y vecinos platenses.


"El radicalismo tiene que volver a sus fuentes, que siempre estuvieron amparadas por lo que Yrigoyen define como su idea moral. El partido puede cambiar su esencia sobre la base de la frustración y los desengaños. Se hizo muy fuerte la defensa de sus ideales, tuvo casi un sentido religioso. Por ello los radicales nos llamamos correligionarios, participantes de una verdadera religión, que es la religión de la ética, de la política limpia, de la política moral. El radicalismo tiene esos principios como base fundamental"

Dr. ANSELMO MARINI

2.2.08

100 años de Atahualpa



A "Don Ata"
Fue una figura consular de la cultura popular argentina y latinoamericana. Un auténtico ícono de la música y la poesía que reflejaban con un estilo inconfundible el paisaje campero, la soledad del gaucho, el estoicismo del indígena, el amor a la madre tierra.
Roberto Chavero, universalmente conocido como Atahualpa Yupanqui, de cuyo nacimiento se cumple un siglo, fue también un símbolo del canto a la libertad y la dignidad del hombre.
Había nacido en Pergamino, hijo de un obrero ferroviario con sangre indígena y una vasca. De muy joven abrazó la causa popular del yrigoyenismo y fue tal su compromiso con lo que ella representaba que terminó enredado en la revolución radical del año 1932 encebezada por los hermanos Kennedy en la provincia de Entre Ríos, que procuraba desbaratar al gobierno conservador, fraudulento y entreguista del general Agustín Justo en tiempos en que don Hipólito Yrigoyen, derrocado de la presidencia purgaba cárcel a manos de sus victimarios.
La derrota revolucionaria lo condujo a su primer exilio uruguayo. Lentamente se fue alejando de su originaria identificación con el radicalismo, evolucionando hacia la izquierda y afiliándose al Partido Comunista.
Por segunda vez debió exiliarse en Uruguay en los años 40, perseguido por el oscurantismo cultural de la dictadura peronista bajo la cual había sufrido cárcel y tortura a manos de la policía brava.
Como artista siempre se identificó con los derechos y las necesidades de los que menos tenían.
Fue un punto de referencia insoslayable para varias generaciones de creadores de la lírica y la música hispanoamericana que se inspiraron en su prolífica obra y su exquisito estilo.
También forjó amistad con otro oriundo del terruño pergaminense, don Arturo Illia. Cuentan que ya desalojado éste por el inícuo golpe militar neofascista, fue a visitar al vate a su casa de Cerro Colorado y en el camino debió bajarse del automóvil, arremangarse los pantalones y entrar descalzo a la casa de Yupanqui. Jocoso y sarcástico le espetó a su ilustre visitante: "¡Tener que ver un presidente en patas!". A lo que Illia repuso: "¡Y un indio en chancletas!".
Hasta el fin de sus días siguió dando testimonio y creyendo en aquello de que tenía "tantos hermanos" que no los podía contar y "una novia muy hermosa que se llama Libertad".
Donquequiera que fuera hacía honor a los versos que él mismo escribió alguna vez identificándose con la Luna Tucumana, ya que "andando y cantando" era su "modo de alumbrar".

Diego Barovero



ATAHUALPA YUPANQUI
Letra de Horacio Ferrer
Musica de Raúl Garello
Compuesto en 1987


Tango dedicado a "Don Ata, hermano mayor y maestro tan querido".

En esta pulpería la noche no se rinde,
hay alcohol, hay barajas, más que nada hay cantor.
En trasluz de tabaco se perfila una estrella
que desvela los rostros, la milonga y la voz.

Atahualpa Yupanqui ya no tiene clavijas,
afina como afinan la montaña y la fe,
tan florido y cantable como un árbol con nidos,
con su saber tan lindo que no es sólo saber.

Sus ojos con capota van de viaje,
pero el mirar se queda siempre aquí,
mirada de Atahualpa que echa coplas,
por cosas que le duelen como a mí.

La noche no se rinde ni Yupanqui
ni el vino ni se rinde la emoción,
oyendo como él canta, venturoso,
silencios con olor a corazón.

En esta pulpería le almacenan su sombra,
su gran sombra que alumbra si escasea la luz,
aparcero del alma, abrazándolo siento
que lo noble del criollo se da con lentitud.

Es zurdo, así, teniendo las dos manos derechas,
con dedos que atraviesan las bagualas de a pie,
ah, poeta, que afuera está hecho de adentros:
los labios son de adentro, la guitarra también.

El vino no se rinde y al gran viejo
tan sólo se le encurda el traje azul.
Afuera, ya su aurora ha comprendido
que ayer, mañana y hoy son siempre aún.

Detrás del mostrador, tirando el naipe,
la muerte, que es de tierra, murmuró:
"Si él nunca hubiera dicho lo que ha dicho,
qué mundo se quedaba sin cantor."

En esta pulpería de Atahualpa,
él canta y no se rinde nuestro amor.








26.1.08

El Gral. Cangallo en el caleidoscopio




Todos sabemos que Julio Cortázar, el gran literato argentino, el intelectual progresista que escapaba a los convencionalismos y a los estrechos etiquetamientos de la prensa y los críticos, fue un antiperonista toda su vida. Como maestro y profesor de la Universidad Nacional de Cuyo fue perseguido por el primer peronismo, todo ello se encuentra por demás detallado en el libro de Jaime Correas ("Cortázar, profesor universitario", Aguilar, Bs As, 2005).

"1973 marca la aparición de una obra fundamental dentro de la literatura (llamada) del compromiso: Libro de Manuel. En él, Cortázar nos presenta las distintas caras que podía llegar a tener un revolucionario de esos días. Todo, matizado con el hilo argumental que da título al volumen: los integrantes de ese grupo de amigos subversivos, exiliados argentinos en París, harán un collage con recortes de cuanto diario encuentren a su alrededor, a fin de que el hijo de una pareja de amigos, Manuel, entienda el mundo cuando haya llegado a una edad en que esto fuera esperable.
Libro de Manuel es, para aquellos que nacimos en los ochenta, un documento literario definitivo para entender el mundo. Vale decir: todos somos ése Manuel, para quien era el libro."

(Diego J. Kenis: "La camiseta de Macarena (o el libro de Manuel)", 2007, www.eldistrital.com.ar)


La Polaquita y Marcos charlaban en la cama.

“ – Polaquita, mi provincia está en un país viejo y cansado, habrá que hacerlo todo de nuevo, creéme, te parecerá macana pero es así, viejo y cansado a fuerza de falsas esperanzas y promesas todavía más falsas en las que por lo demás nadie creyó nunca salvo los peronistas de la guardia vieja y éstos por razones diferentes y muy legítimas aunque al final el resultado fuera el de siempre, o sea coroneles a patadas empezando por el héroe epónimo.

- ¿Y por qué muchos de tus amigos y esos recortes de diarios y Patricio hablan del peronismo como de una fuerza o una esperanza o algo así?.

- Porque es cierto, polaquita, porque las palabras tienen una fuerza terrible, porque la realpolitik es lo único que nos va quedando contra tanto gorila pentagonal y tanto Vip, hoy no podrás entenderlo pero ya irás viendo, pensá en el jugo que le han sacado a la palabra 'Jesús', a la imagen Jesús, comprendé que nosotros necesitamos hoy una palabra taumatúrgica y que la imagen a la que corresponde esa palabra tiene virtudes que reíte de la cortisona.

- Pero vos no crees en esa imagen, Marcos.

- Qué importa si nos sirve para echar abajo algo mucho peor, la ética de los abuelos ya no corre, polaquita, sin hablar que los abuelos tenían dos éticas a la hora de encaramarse a lo que fuera, podés estar segura. Tenés razón, me importa un bledo ese viejo que pretende telecomandar algo que en su día fue incapaz de hacer a fondo y eso que tuvo las mejores cartas en la mano; pero de hecho ya está fuera de juego, solamente que los nombres y las imágenes duran más que lo nombrado y lo representado, y en mejores manos pueden dar lo que no dieron en su momento, vos fijate el discurso que te estoy haciendo.


- Quisiera comprender mejor -dijo Ludmilla-, quisiera comprender tantas cosas pero queda lejos, no se ve muy claro con tanta agua de por medio.


- Tampco allá se ve claro, no te voy a atosigar con algo más complicado que la ley de alquileres, solamente comprendé que para nosotros, todas las armas eficaces son válidas porque sabemos que tenemos razón y que estamos acorralados por dentro y por fuera, por los gorilas y los yanquis e incluso por la pasividad de esos millones que esperan siempre que otros saquen las castañas del fuego, y además porque el solo hecho de que los enemigos del peronismo sean quienes son nos parece un motivo más que legítimo para defenderlo y valerse de él y un día, sabés, un día salir de él y de tanta otra cosa por el único camino posible, ya te imaginás cuál."


Julio Cortázar.


(Fragmento del "Libro de Manuel" de JULIO CORTÁZAR, 1973)


De la lobotomía moral

Por Juan Gelman


No es el mero lavado de cerebros, del que se ocupan cotidianamente gobiernos como el de la Casa Blanca donde asientan sus traseros –única materia pensante que, al parecer, poseen– los fautores de guerras infinitas, o ciertos medios, ciertas audiciones de radio, ciertas cadenas de televisión. Es algo más: es la mutilación de sentimientos morales como el arrepentimiento, la culpa, la memoria del horror, la solidaridad, la compasión, la repugnancia de matar a otros seres humanos y hasta la dignidad del combate. El Pentágono ha tomado medidas para que nada de eso asalte a sus soldados, que considera apenas material desechable. Se lo ha oficializado el Congreso de EE.UU.


La Ley de psicología Kevlar de 2007 faculta a la Secretaría de Defensa “a desarrollar y aplicar un plan de medidas preventivas y de intervención temprana, de prácticas o procedimientos que reduzcan la posibilidad de que el personal en combate padezca desórdenes post traumáticos (PTSD, por sus siglas en inglés) y otras psicopatologías relacionadas con el estrés, incluyendo la utilización de substancias” (www.opencongress.org, 31-7-07). La sustancia es el propanolol y esa preocupación tiene razones: casi el 40 por ciento de los soldados, un tercio de los marines y la mitad de los guardias nacionales que han luchado en Irak sufren graves trastornos mentales, según se asienta en un informe del Grupo de Tareas sobre Salud Mental del Pentágono (www.defense link.mil, 15-6-07). En el informe relativo a los suicidios en las fuerzas armadas estadounidenses después de la invasión y ocupación de Irak se registra que la tasa de efectivos que se dieron muerte por mano propia en el 2006 es la más alta desde 1980 (www.armymedicine.army.mil, 2006). La CBS informó en diciembre que, con base en una investigación que llevó a cabo, más de 6250 veteranos se suicidaron en el 2005, unos 17 cada día. Las bajas en el frente fueron mucho menores. La muerte no cesa de trabajar después de los tiros.

La lógica de la ley Kevlar es sencilla: si los chalecos antibalas protegen el físico de los militares estadounidenses, ¿por qué no emplear drogas para proteger su subjetividad? Desde la Segunda Guerra Mundial, el Pentágono viene desarrollando métodos para modificar los valores éticos que las familias y la escuela inculcaron a los reclutas. El teniente coronel Peter Kilner fue muy claro al respecto: “El entrenamiento militar moderno condiciona a los soldados para que reaccionen ante los estímulos y esto maximiza su capacidad letal, desbordando toda autonomía moral. Se condiciona a los soldados para que actúen sin considerar las repercusiones morales de sus acciones, se los torna capaces de matar sin tomar la decisión consciente de hacerlo. Si no pueden justificar ante sí mismos el acto de matar a otro ser humano, probable y comprensiblemente se sentirán muy culpables y esto se manifestará en un PTSD y dañará la vida de miles de hombres que cumplieron su deber en el frente” (The New Yorker, 5-7-04). El coronel Kilner es profesor de filosofía y ética en West Point. ¿Cómo definirá la ética en sus clases?

La cápsula de propanolol destinada a los efectivos estadounidenses tiene efectos varios. Es como una pastilla del día siguiente, atenúa o apaga la memoria de los horrores vistos y cometidos. Esta técnica de congelación de la sensibilidad y la memoria explica el miedo de las familias que se instala en los hogares cuando los veteranos vuelven y ejercen una violencia indiscriminada. También el número de violaciones dentro de las fuerzas armadas de EE.UU.: ascendieron a 2374 casos en el 2005, un incremento del 40 por ciento respecto del año anterior, y se trata apenas de los casos denunciados. El general K.C. McClain, comandante del grupo de tareas del Pentágono encargado de la prevención y respuesta a las agresiones sexuales en las propias filas, subrayó: “Los estudios indican que sólo se notifica el 5 por ciento de esos hechos” (www.defenselink.mil, 16-3-06). Si así fuere, tales agresiones habrían superado la cifra de 47000 en el año investigado, más de 130 por día. Una friolera, vamos.

Es notorio que el propanolol se emplea con fines terapéuticos, entre otras cosas para aminorar la presión sanguínea y poner coto a las arritmias del corazón. Algunos atletas lo utilizan a manera de dopping con el objeto de mejorar su rendimiento. Para el Pentágono es otra cosa: una garantía de que las tropas perpetren cualquier crimen sin cuestionamiento alguno y puedan seguir cometiéndolos. La ley Kevlar facilita la “cura” de los impulsos suicidas y los trastornos mentales que experimentan los efectivos norteamericanos mutilando su memoria y sentimientos. La lobotomía moral existe.

18.12.07

Un criminal menos - a 1 año de la muerte de Pinocho


A dormir van los Augustos
el sueño de los injustos
en el infierno del Dante.

Salvador Allende queda
saliendo de la Moneda
con los dos pies por delante.

Ay, pobre doña Lucía,
el domingo que cumplía
ochenta y cuatro, enviudó.

Qué obscenidad, generales
de gala en los funerales,
la puta que los parió.

Iceberg de la memoria,
Neruda, Carmelo Soria,
tú, Letelier, Víctor Jara.

¿A tal verdugo, clemencia?
Lo que dicta mi conciencia
es escupirle en la cara.

Garzón tuvo dos garzones
cuando con nulas opciones
ordenó busca y captura

de luxe pero un calvario
pasó el felón victimario
con su máster en tortura.

Pinochetín, de buen nieto
se pasó, con un panfleto
que ultramilicó su furia.

Por suerte el de Prats, carajo,
redimió, con un gargajo,
tanta muerte, tanta injuria.

Los momios lloran de pena,
los rotos rompen la escena
huérfanos de tanto hermano.

Arde la capilla ardiente
donde, de cuerpo presente,
sigue jodiendo el tirano.


JOAQUÍN SABINA, 2006.

26.11.07

“¿Por qué no te callas?” o la colonialidad del poder

Por Boaventura de Sousa Santos *


“¿Por qué no te callas?” Esta frase, pronunciada por el rey de España dirigiéndose al presidente Hugo Chávez durante la XVII Cumbre Iberoamericana realizada en Chile el pasado 10 de noviembre, corre el riesgo de quedar en la historia de las relaciones internacionales como un símbolo cruelmente revelador de las cuentas por saldar entre las potencias ex colonizadoras y sus ex colonias. De hecho, nadie se imagina a un jefe de Estado europeo dirigiéndose públicamente en esos términos a un par europeo, cualesquiera fuesen las razones del primero para reaccionar ante las consideraciones del último. Como cualquier frase que interviene en el presente a partir de una larga historia no resuelta, esta frase es reveladora en diferentes niveles.

En primer lugar, revela la dualidad de criterios para evaluar qué es o no democrático. Está documentado el involucramiento del primer ministro de España de entonces, José María Aznar, en el golpe de Estado que en 2002 intentó derrocar a un presidente democráticamente electo, Hugo Chávez. Como a esa altura España presidía la Unión Europea, esta última no puede siquiera clamar su total inocencia. Para Chávez, al actuar de esta forma, Aznar se comportó como un fascista. Podría llegar hasta a cuestionarse la adecuación de este epíteto. Pero, ¿no hay tantas razones para defender las credenciales democráticas de Aznar, como hizo patéticamente Zapatero, como para denunciar el carácter antidemocrático de su injerencia? ¿Se haría lugar a la misma vehemente defensa si un presidente electo de un país europeo colaborase en un golpe de Estado para deponer a otro presidente europeo electo?

La dualidad de criterios tiene aún otra vertiente: la valoración de los factores externos que interfieren en el desarrollo de los países. En los primeros discursos de la Cumbre, Zapatero criticó a aquellos que invocan factores externos para encubrir su incapacidad para desarrollar a los países. Era una alusión a Chávez y su crítica al imperialismo norteamericano. Pueden criticarse los excesos de lenguaje de Chávez, pero no es posible hacer esta afirmación en Chile sin tener presente que allí, hace 34 años, un presidente democráticamente electo, Salvador Allende, fue depuesto y asesinado por un golpe de Estado orquestado por la CIA y Henry Kissinger. Tampoco es posible hacerlo sin tener presente que actualmente la CIA tiene en curso las mismas tácticas usando el mismo tipo de organizaciones de la “sociedad civil” para desestabilizar a la democracia venezolana.

Tanto Zapatero como el rey quedaron particularmente irritados por las críticas a las empresas multinacionales españolas (búsqueda desenfrenada de lucro e interferencia en la vida política de los países), realizadas en diferentes tonos por los presidentes de Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Bolivia y Argentina. Es decir, los presidentes legítimos de las ex colonias fueron mandados a callar pero, de hecho, no se callaron. Esta negación significa que estamos por entrar en un nuevo período histórico, un período poscolonial, teorizado, entre otros, por José Martí, Gandhi, Franz Fanon y Amílcar Cabral, y cuyas primicias políticas se deben a grandes líderes africanos como Kwame Nkrumah. Será un período duradero que se caracterizará por una fuerte afirmación de los países que se liberaron del colonialismo europeo en la vida internacional y se basará en la recusación de las dominaciones neocoloniales que han persistido más allá del final del período colonial. Esto explica por qué la frase del rey de España, destinada a aislar a Chávez, fue un tiro que salió por la culata. Por la misma razón se explican los sucesivos fracasos de la Unión Europea de aislar a Roberto Mugabe.

Pero, “¿por qué no te callas?” es todavía reveladora a otros niveles. Destaco tres. Primero, la desorientación de la izquierda europea, simbolizada por la indignación hueca de Zapatero, incapaz de darle cualquier uso creíble a la palabra “socialismo” e intentando desacreditar a aquellos que lo hacen. Puede cuestionarse al “socialismo del siglo XXI” –yo mismo tengo reservas y preocupaciones en relación con algunos desarrollos recientes en Venezuela–, pero la izquierda europea deberá tener la humildad para reaprender, con la ayuda de las izquierdas latinoamericanas, a pensar futuros poscapitalistas. Segundo, la frase espontánea del rey de España, seguida del acto insolente de abandonar la sala, mostró que la monarquía española pertenece más al pasado de España que a su futuro. Si, como escribió el editorialista de El País, el rey desempeñó su papel, es precisamente este papel el que más y más españoles ponen en cuestión, al abogar por el fin de la monarquía, en definitiva una herencia impuesta por el franquismo. Tercero, ¿dónde estuvieron Portugal y Brasil en esta Cumbre? Al mandar a callar a Chávez, el rey habló en familia. ¿Brasil y Portugal son parte de ella?

* Doctor en Sociología del Derecho (Universidad de Yale), catedrático de la Universidad de Coimbra (Portugal).

22.11.07

ANSELMO MARINI - en el centenario de su nacimiento


Se cumplen cien años del nacimiento de un hombre público de sobradas y comprobadas virtudes republicanas: don Anselmo Antonio Marini.
Es sabido que Marini hizo en la política lo que los romanos definían como "cursus honorum", la carrera de los honores. Pocas veces pudo ser más completa. Inició su vida política en la Universidad Nacional de La Plata representando al claustro de estudiantes en el Consejo Directivo de la Facultad de Ciencias Jurídicas en 1930. Le tocó ser concejal en su ciudad y presidir el radicalismo platense, compartiendo ese reducto de mentes privilegiadas que integraron Ricardo Balbín, Emir y Amílcar Mercader, Emilio Donato del Carril, ente otros. En 1949 fue diputado en la Convención Nacional Constituyente.
En 1952 integró y presidió el bloque de diputados de la UCR en la Legislatura de la provincia de Buenos Aires.
En 1957 volvió a integrar la Convención Nacional Constituyente ocupando la vicepresidencia 1° del cuerpo.
Desde 1958 hasta la crisis institucional de 1962, presidió el bloque de diputados nacionales de la U.C.R. destacándose su laboriosidad y enjundia.
Desde 1963 y hasta el bochornoso golpe de1966, ocupó el sillón de Dardo Rocha como gobernador de Buenos Aires, en una gestión progresista y ejemplar.
Con la restauración de la democracia constitucional en 1983, le fue encomendada por el gobierno del presidente Alfonsin la representación diplomática argentina ante la hermana República del Perú, desempeñando su misión con la dedicación e inteligencia que había acumulado a lo largo de sus años al servicio de la Patria.
La UCR lo distinguió como presidente de la Comisión Nacional de Homenaje al centenario de su fundación (1990/1992) además de haberle correspondido ser convencional nacional en varios períodos. En 1996 fue designado Miembro de Honor del Instituto Yrigoyeneano,.
Lo acompañaron siempre en su prolongada y fructífera vida, su esposa Edith, su hija María Edith y una legión de nietos y biznietos.
Octavio R. Amadeo en sus brillantes ensayos reunidos en "Vidas Argentinas" al referirse a la vejez de una figura consular argentina dice: "le fué otorgada la vejez, que es casi un virtud. y cuando se llega a ella con salud moral y física, con utilidad social, es como una santidad...Fué un gran viejo; la vejez es una dignidad y una virtud. Producir un viejo es un éxito de la naturaleza y una victoria de la raza". Esto se puede aplicar sin dudar a la figura eminente de Anselmo Marini que alcanzó la senectud con una dignidad y un señorío reconocido y admirado por propios y extraños, sin diferencia de banderías.
En su compromiso ciudadano con los ideales que abrazó desde niño y su consecuencia de conducta sin estridencias, vivió la vida gloriosa de los seguidores sacrificados de Yrigoyen, aquel que exaltó al pueblo a los primeros planos por medio de la revolución democrática que inspiró y llevó a cabo.
El monumento pétreo que espera a Marini y el espiritual que ya tiene levantado en los corazones de sus conciudadanos ha de servir de guía espiritual de una sociedad sedienta de ejemplos morales como el de ese hombre que fue grande sin querer llegar a serlo.

21.11.07

El lugar del desaparecido en el arte

tomas ruiz rivas y el desaparecido en españa y la argentina

Coordinador del encuentro Homo sacer. El lugar de los desaparecidos en el arte, el artista madrileño acaba de realizar un homenaje a las víctimas de la dictadura franquista. Un tópico que, según detalla, al día de hoy está lejos de resolverse en el seno de la sociedad española.


La figura del Homo sacer, rescatada por el filósofo italiano Giorgio Agamben para explicar el estatuto del prisionero del campo de concentración nazi, es quizás hoy por hoy la noción clave para avanzar en una comprensión profunda del terrorismo de Estado. En esta avanzada artístico-política se encuentra Tomás Ruiz Rivas, artista visual, curador independiente, director y creador del Ojo Atómico (antimuseo de arte contemporáneo) y coordinador del encuentro Homo sacer. El lugar de los desaparecidos en el arte, organizado por el Centro Cultural de España (Cceba). El artista madrileño –conocido por sus trabajos sobre la identidad española y la memoria histórica bajo el heterónimo Tom Lavin– plantea que no es casual que sea un argentino, el filósofo Ricardo Forster, quien haya establecido la relación entre el Homo sacer de Agamben y el desaparecido. “El hallazgo de Agamben –escribe Forster– es notable ya que a través de esta oscura figura del derecho romano arcaico logra hacer pensable el mecanismo que constituye la figura del poder soberano como fuente de exterminio, sin contradecir, y éste es el escándalo que subyace a la política de Occidente, al propio derecho. Agamben ha captado ese momento obturado por el logos en el que el humano es despojado de su humanidad, nulificada su existencia y, por tanto, utilizable y eliminable según las necesidades políticas del soberano”.

Las sociedades argentina y española comparten la experiencia traumática de las desapariciones. Las cifras de desaparecidos son similares: unas 30.000 personas, “aunque por la misma naturaleza de esta forma de terrorismo de Estado es casi imposible fijar un número exacto –aclara Ruiz Rivas–. Más en España, donde la mayoría de las desapariciones tuvieron lugar entre 1936 y 1948, y ya han muerto muchos de los testigos que podrían habernos dicho quién, cuándo y cómo faltó de su casa”. Por paradójico que resulte, la desaparición ha llegado a tener estatuto de ley: un decreto conocido como Noche y Niebla, firmado por Wilhelm Keitel en 1941, y cuyo nombre completo era: “Directivas para la persecución de las infracciones cometidas contra el Reich o las fuerzas de ocupación en los territorios ocupados”.

Como Tom Lavin, este creador español realizó la videoinstalación Fosa común, un modo de rendir homenaje a las víctimas de la dictadura franquista. En Madrid, Toledo y México dibujó un mapa en el suelo y desplegó más de 150 kilos de tierra de una fosa común de la provincia de Burgos, donde se hizo una exhumación en el 2000, cuando Emilio Silva, fundador de la Asociación para la Recuperación de la Memoria Histórica (ARMH), decidió buscar los restos de su abuelo. “El tema de los desaparecidos recién se está empezando a hacer público en España –dice Ruiz Rivas en la entrevista con Página/12–. No sabía cómo abordarlo como artista, pero cuando vi el documental Santa Cruz por ejemplo..., del austríaco Günter Schwaiger, se me ocurrió hacer un gran mapa de España con tierra de fosas comunes. Las reacciones fueron muy variadas, pero hubo mucha gente que se negó a pisar esa tierra. Es una aprensión chocante porque llevamos pisando setenta años esa tierra sin saberlo, o sabiéndolo pero sin querer saberlo.”

–¿Por qué tuvieron que pasar 70 años para que la sociedad española se animara a hablar de las desapariciones durante el franquismo?

–La derecha española construyó su discurso para justificar el golpe de Estado y la Guerra Civil, colocándose en el lugar de las víctimas; apeló a la construcción simbólica de los mártires del catolicismo, que le permitió justificar la necesidad de una acción violenta porque estaban siendo martirizados. Durante cuarenta años se ha borrado literalmente de la historia y de la enseñanza la existencia de la represión franquista. He hablado con personas mayores de derechas que aún dicen que no ha habido tal represión, y hay escritores que han escrito, con una desfachatez absoluta, que la represión fue mínima. De forma sistemática, durante cuarenta años, se consiguió que la represión franquista desapareciera de la memoria colectiva. En los años ’70, poco después de la muerte de Franco, se dio un movimiento civil fuerte de recuperación de restos humanos. En algunas zonas de España se hicieron exhumaciones, con la participación de antropólogos y médicos forenses, y se identificaron huesos. Pero el golpe de Estado de Tejero, en 1981, paralizó todo este impulso de la sociedad de buscar la verdad, de reclamar justicia. La reaparición del fantasma del terrorismo de Estado fue suficiente para que no se volviera a hacer una exhumación en 20 años, hasta el 2000.

–¿Hay una cifra estimada de la cantidad de desaparecidos durante el franquismo?

–No, porque las desapariciones, por su propia naturaleza, no están documentadas, incluso muchos de los archivos de los juicios sumarios, el trámite por el que se condena a muerte a una persona, se han destruido, los cuerpos fueron a fosas comunes, que también han sido levantadas de los cementerios. Las investigaciones para llegar al número de víctimas son complejísimas. La junta de Andalucía está haciendo un mapa en donde llevan localizadas unas 460 fosas comunes y tienen una lista que supera los 35.000 nombres, solamente en Andalucía. La forma de llegar a esta cifra es lateral, porque no hay expedientes policiales o militares que digan: “hemos matado a Federico García Lorca”.

–¿Cómo hace el artista para abordar estos temas tan traumáticos?

–No sabría sentar cátedra sobre la forma de hacerlo, pero parto de un interés personal que no se debe a un trauma directo; en mi familia hay un exiliado, pero no hubo muertos por la represión. Hubo un momento en que me di cuenta de que algo en mi vida estaba mal y que tenía unas raíces más amplias que mi propia biografía. Eso me llevó a intentar entender qué tipos de fracturas había en la sociedad española, lo que me condujo a investigar sobre el franquismo y la represión. Una de las pautas de mi trabajo como artista es colaborar con las organizaciones civiles. No me interesa la distancia del artista que trabaja en su estudio, sino que busco el diálogo con la Asociación para la Recuperación de la Memoria Histórica y con los familiares de las personas enterradas en esas fosas. Lo importante es que la obra de arte exceda las fronteras del sistema artístico, que conecte con otras esferas públicas o campos de conocimiento que le den una capacidad de actuación política, que puede ser reducida, pero que es real. Voy introduciendo mi obra en circuitos que no son artísticos, y para mí es importante porque por lo general el arte contemporáneo es un sistema cerrado en donde este tipo de contenidos tienden a convertirse en una mercancía para un mercado suntuario y pierden cualquier efectividad simbólica.

–Al mismo tiempo que se da esta tendencia de un mercado suntuario, ¿habría una recuperación del arte político en los últimos años?

–Sí, el 11 de septiembre, la guerra de Irak y la catástrofe en la que ha sumergido Bush a toda la humanidad fueron detonantes de la reaparición del arte político. Tenemos problemas acuciantes y el arte no puede estar dedicado a producir objetos costosos dentro de un circuito cerrado. Hay artistas que, así como hacen arte, diseñan moda o hacen joyas y están regresando a una forma de arte que corresponde más al siglo XVIII que a nuestra época. Pero por otro lado, hay gente que entiende que el arte es una actividad política. Los españoles todavía tenemos muchos tabúes y barreras mentales a la hora de acercarnos a este tipo de experiencias políticas como la recuperación de la memoria histórica; no sabemos cómo afrontarlas ni cómo llevarlas al terreno del arte, y el contexto institucional, en general, no facilita mucho las cosas.


LAS LISTAS DE "ROJOS"

Tomás Ruiz Rivas confesó que no tomó conciencia de lo que había bajo sus pies hasta que leyó, en el verano de 2000, la noticia de la primera exhumación realizada por la Asociación para la Recuperación de la Memoria Histórica (ARMH) en una fosa con trece cuerpos, en Priaranza del Bierzo, un pueblo de León. “Desde entonces han desenterrado más de un millar de cuerpos de unas 200 fosas –aclara–. Se trata, en todos los casos, de víctimas de ejecuciones extrajudiciales, de desaparecidos. La cifra es terrible, pero no es más que un botón de muestra.” La ARMH presentó ante el juez Baltasar Garzón, en diciembre de 2006, una demanda contra el Estado español, reclamando que dé cuenta del paradero de 30.000 españoles desaparecidos bajo el franquismo. Un aspecto particularmente tenebroso de las desapariciones zes la participación de la sociedad civil en los crímenes. “Según ha podido averiguar la ARMH, por testimonios de familiares de las víctimas, en los pueblos los elementos afines a la sublevación militar elaboraban listas de ‘rojos’, que se intercambiaban con los fascistas de los pueblos vecinos, de modo que cada grupo se ocupaba de hacer desaparecer a los ‘rojos’ del vecino –precisa Ruiz Rivas–. Falangistas, guardias civiles, particulares y miembros del clero ejecutaron materialmente el plan de exterminio de los posibles opositores a partir septiembre de 1936, y en especial en las provincias que se unieron desde el principio al golpe de Estado, y donde no hubo frente de guerra. La fecha es relevante, porque las desapariciones, al menos en Castilla y León, empiezan dos meses después del alzamiento en Melilla, cuando se está formando una resistencia popular que contendrá el avance de las tropas de Franco en Madrid, otros dos meses después, en noviembre de 1936. Esto, y el sistema de listas cruzadas, es lo que nos permite pensar que las desapariciones no fueron fruto de una explosión espontánea de ira, como se ha dicho tradicionalmente, sino de un plan perfectamente articulado.”

1.11.07

30 de Octubre - Algo más que nostalgia

Raúl Alfonsín fue el primero en salir a la arena el 16 de julio de 1982, realizó, en la Federación Argentina de Box, un importante acto donde el público supero holgadamente las expectativas de los organizadores.
El 7 de diciembre de 1982 el jefe del Movimiento de Renovación y Cambio de la UCR, congregó más de 30.000 personas en el estadio Luna Park. Más aun también fueron masivos los actos de Luis León y de De la Rua realizados en ese mismo lugar, lo que hablaba de lo que producía el radicalismo en la gente
La figura de Alfonsín hacia desbordar los locales partidarios, la gente concurría masivamente a afiliarse, esto fue decisivo en las elecciones internas en todo el país. En las elecciones que se realizaron en el invierno del 83, Alfonsín lograría imponerse en todos los distritos. El 29 de julio de ese año era designado Presidente del partido.
Dos días después, el 31, la Convención Nacional de la Unión Cívica Radical lo proclamaría como candidato a la Presidencia de la Nación secundado por el Dr. Víctor Martinez.
Durante toda la campaña electoral, Alfonsín apelaría a un recurso tan noble como efectivo: todos sus discursos finalizaban recitando textualmente al Preámbulo de la Constitución Nacional, a modo de credo colectivo.
Lanus, Avellaneda,San Justo, La Plata y el país entero vibraban, deliraban en actos masivos, en ellos Alfonsín apelaría a un recurso inolvidable, el preámbulo que era recitado como un credo A la contundente consigna "¡Ahora Alfonsín!" se sumaba otra igualmente efectiva: "Somos la Vida", quien podrá olvidar ese gesto con las manos agarradas y los calcos de R.A..
Estallo Ferro, a fines de septiembre, en un acto en el que se debió poner pantalla gigante afuera, la gente sobre la avenida avellaneda llegaba a flores, finalmente el acto en la 9 de julio con un millón de personas en la calle.
Recuerdo que tarareábamos ese poema maravilloso de MARIO Benedetti y Favero

Cantamos porque llueve sobre el surco
y somos militantes de la Vida
y porque no podemos, ni queremos
dejar que la canción se haga cenizas.
Cantamos porque el grito no es bastante
y no es bastante el llanto, ni la bronca.
Cantamos porque creemos en la gente
y porque venceremos la derrota.

Ese 30 de octubre el pueblo consagro a Alfonsin presidente, se abría una etapa única e inolvidable.

Más allá de balances, que maravilloso recuerdo el de esos días, en mi caso tenía 20 abriles como muchos que nos iniciábamos en la militancia, la de las paredes pintadas por militantes, las de comités bulliciosos, la de infinidad de actos por doquier, de muchos sueños.

Quizás en este panorama del radicalismo de hoy, es bueno detenernos un instante a recordar esos días, quizás el repensar esos sueños y utopías, nos de la fuerza para consumar la obra como dijo nuestro fundador. Todos juntos, haremos que el radicalismo vuelva a sus horas mas gloriosas. Que así sea.


Dr. Gustavo Aramburu

22.10.07

el populismo debe salir de escena

"Los políticos carecen de argumentos para un debate de contenidos, porque muchos asuntos ya han pasado a ser competencia comunitaria o regional, mientras la economía se desarrolla de modo autónomo. Así que los políticos buscan temas para lucirse y recurren al populismo. Pero esta situación tiene un límite y, cuando ya no sea posible seguir como hasta ahora, los populistas tendrán que salir de escena."


Lech Walesa

Fuente: "El País", Madrid, 21 de octubre de 2007, p. 8

14.10.07

Se informa que la sede del Instituto Nacional Yrigoyeneano sita en Junín 262 planta baja 2 de la Ciudad Autónoma de Buenos Aires, se encuentra abierta al público

para consultas y visitas los días martes, miércoles y jueves (hábiles) de 17 a 19 horas.

El Consejo Directivo

www.yrigoyen.gov.ar

11.10.07

12 de octubre: Yrigoyen y el primer gobierno democrático

Por Diego Barovero


El 12 de octubre de 1916, seis meses después de la primera aplicación nacional de la Ley Sáenz Peña que posibilitó la victoria electoral de la Unión Cívica Radical, el Dr. Hipólito Yrigoyen asumió como primer presidente auténticamente democrático de la historia argentina.

Habiendo obtenido más de 370.000 votos -casi el 49% de los votos válidamente emitidos- la fórmula radical se alzó con el triunfo aquel 2 de abril de 1916. A pesar de las presiones y las agachadas típicas de la política criolla, al irreductible Yrigoyen -“Que se pierdan cien gobiernos pero que se salven los principios”- le alcanzaron los electores para ser definitivamente consagrado el 20 de julio siguiente junto al Pelagio B. Luna como Presidente y Vice de la Nación Argentina.

Llegaba así a su fin el “Régimen”, un sistema que había sido eficaz para el crecimiento económico del país, pero que basaba su estructura jurídico institucional en prácticas deleznables que abjuraban del principio representativo del gobierno consagrado en el artículo 1° de la Constitución Nacional.

La llegada al gobierno del líder radical se había jalonado mediante la acción revolucionaria y el abstencionismo durante los procesos eleccionarios plagados de ilegalidades, donde las prácticas corruptas del antiguo régimen impedían el ejercicio del sufragio libre. Yrigoyen y el radicalismo tuvieron la virtud de generar un nuevo paradigma político.

El régimen gobernante compuesto por la oligarquía, que ya no era liberal e ilustrada como la decimonónica, dio muestras de apertura cuando su más lúcido exponente, el Presidente Roque Saenz Peña, convocó a Yrigoyen al diálogo político. De aquel encuentro surgió el código electoral que lleva el nombre del primero, y que al decir de Félix Luna debió llevar el del segundo.

No fue fácil el camino que lo llevó a la Casa Rosada, especialmente porque el régimen agotó todas las posibilidades de un continuismo de sus políticas y de sus hombres, y que según Horacio Oyhanarte: "el régimen no tuvo ni la dignidad de su caída".

El 12 de Octubre Yrigoyen asumía las altas responsabilidades para las cuales se había preparado toda su vida. Ese mismo día moría el cantor Gabino Ezeiza, que había sido símbolo del viejo radicalismo, de las luchas de Alem y de la Unión Cívica, y cuando le contaron al Presidente a punto de asumir, con tristeza y resignación, dijo: "¡Pobre Gabino! ¡El ayudó!".

La obra de gobierno yrigoyeneana podría ilustrarse con algunos de sus logros, como la Reforma Universitaria que fue numen inspirador de los movimientos regeneradores de América Latina; la creación de YPF y la defensa del petróleo en la genial labor del General Enrique Mosconi; la jornada laboral de ocho horas y las primeras leyes previsionales; la creación del Banco Agrario y la sanción de la ley de arrendamientos agrícolas; el ferrocarril a Huaytiquina y el establecimiento en la República de más de tres mil nuevas escuelas. Todo ello con un Congreso opositor, con sólo cuatro provincias de su signo político y con una prensa despiadada en continuo ataque.

Sin embargo, el ambiente del país era otro muy diferente. Vale repasar al escritor Eduardo Mallea quien recuerda los momentos iniciales de la presidencia de Yrigoyen de esta forma: "Sobrevino un estado de pureza cívica, una gran seriedad de conciencia culminó en 1916 con el advenimiento de un gobierno austero y popular… era una gran necesidad civil de decencia contra muchos años de explotación y de fraude." (Mallea, Eduardo: 'El sayal y la púrpura', Losada, 1941)

Uno de sus más enconados e inteligentes adversarios Nicolás Repetto, líder del socialismo argentino dijo del Presidente Yrigoyen con motivo de su muerte: "A Yrigoyen le ha sido dada experimentar la satisfacción más grande a la que pudo aspirar un hombre de su acción: contribuyó a derrocar el régimen de las viejas oligarquías e inauguró el primer gobierno verdaderamente democrático del país. Este sólo hecho basta para asegurarle un puesto señalado y definitivo en la historia argentina"

Hoy, Hipólito Yrigoyen es considerado un prócer, padre de la democracia argentina. Tiene monumentos; localidades, calles y plazas que llevan su nombre; los homenajes se suceden, y sus máximas más famosas suelen citarse en el discurso político. Aún resta el examen de muchos aspectos de su pensamiento, que han sido relegados, mal estudiados o ignorados. Por la trascendencia e influencia de sus ideales en la formación de la conciencia nacional, podríamos afirmar con el joven e indeleble Jorge Luis Borges que "Yrigoyen nos sigue gobernando".


*Vicepresidente del Consejo Directivo del Instituto Nacional Yrigoyeneano (Ley N° 26.040)


INSTITUTO NACIONAL YRIGOYENEANO
www.yrigoyen.gov.ar

25.9.07

Decisión de la Corte Chilena Reafirma la Responsabilidad de Jefes de Estado

ICTJ Celebra Extradición de Ex Presidente Fujimori a Perú
Decisión de la Corte Chilena Reafirma la Responsabilidad de Jefes de Estado


NUEVA YORK, 25 de Septiembre de 2007—El Centro Internacional para la Justicia Transicional celebra la resolución de la Corte Suprema de Chile, en la que acogió la solicitud de extradición del ex Presidente del Perú, Alberto Fujimori, a su país. La decisión, adoptada el viernes pasado, refuerza la importancia de la colaboración entre los poderes judiciales de diferentes países en el esfuerzo por combatir la impunidad de violaciones a los derechos humanos.

La extradición permitirá que Fujimori sea juzgado por los tribunales peruanos por dos crímenes contra los derechos humanos y varios casos de corrupción cometidos durante su gobierno entre 1990 y 2000. El juicio será una gran contribución al proceso para la obtención de verdad, alcanzar la justicia y reforzar el compromiso del gobierno en la entrega de reparación para las víctimas de las violaciones a los derechos humanos cometidas en Perú entre 1980 y 2000, que fueron registradas por la Comisión de Verdad y Reconciliación de ese país.

La sentencia de la Corte Suprema de Chile afirma principios muy importantes en materia de derechos humanos, incluyendo:

Como se ha señalado con anterioridad, la importancia de la cooperación entre los sistemas judiciales de distintos países para hacer justicia en casos de violaciones a los derechos humanos. Esta colaboración se origina en la obligación general de los Estados de impedir la impunidad de delitos que, por su gravedad, afectan a toda la comunidad internacional y del compromiso que éstos tienen de respetar y promover tales derechos. Al afirmar este principio, la sentencia constituye un poderoso llamado a todos aquellos ex jefes de Estado que se refugian en otros países, de que sus intentos de escapar de la justicia serán frustrados y serán extraditados y juzgados.

La responsabilidad de jefes de Estado como autores mediatos de violaciones a los derechos humanos, como consecuencia de su dominio de un aparato organizado de poder. La Corte Suprema de Chile consideró para esto la concentración de poder que Fujimori habría tenido, especialmente sobre las fuerzas armadas y servicios de inteligencia del Perú.

El rechazo de la pretendida inmunidad de ex jefes de Estado por crímenes cometidos en el ejercicio del poder, consecuencia de la obligación de respetar los derechos humanos. Esto reafirma las conclusiones a las que llegó la Corte Interamericana de Derechos Humanos, que estableció la responsabilidad del Estado peruano en los dos casos de violaciones a los derechos humanos por los que fue concedida la extradición.

La sentencia, al conceder la extradición para casos de corrupción como de violaciones a los derechos humanos, la Corte reconoce un patrón común en dictaduras y regímenes autoritarios, que finalmente se vuelven corruptos y utilizan su poder para beneficio personal y para cometer crímenes en contra de la población.

Como se recuerda, el Perú requirió la extradición de Fujimori por 13 casos. Dentro de dichos casos, estaban la matanza de Barrios Altos, las desapariciones forzadas de “La Cantuta”, además de actos sistemáticos de corrupción cometidos en asociación directa con altos funcionarios públicos y, en particular, en coautoría con Vladimiro Montesinos, su poderoso asesor personal.

La Corte acogió la extradición en forma unánime para los casos de Barrios Altos y La Cantuta, así como para un caso de corrupción, y por votos de mayoría en los restantes cinco, lo que permitirá el juzgamiento en el Perú por siete de los trece casos por los que se solicitó la extradición. De los restantes seis casos, en los que la extradición fue denegada, cinco eran por corrupción y uno se refería a desaparición forzada de varias personas, que había sido agregado con posterioridad a la solicitud de extradición. El sábado pasado, al día siguiente de dictada la sentencia, Fujimori había sido trasladado al Perú, bajo custodia de la policía peruana.

Cristián Correa, del Centro Internacional para la Justicia Transicional, con base en Nueva York, destacó que “La sentencia de la Corte reafirma una doctrinas fundamental desarrollada por el Derecho Internacional, como es que los superiores pueden y deben asumir su responsabilidad por los crímenes cometidos bajo su control, independientemente de su participación material en los crímenes.”

Correa agregó además que “Esperamos que los tribunales de Perú realicen un juicio imparcial, con todas las garantías del debido proceso, así como con la participación de las víctimas. Dado que este juicio constituye una oportunidad histórica para la sociedad peruana para desentrañar la horrible verdad de su pasado reciente, de hacer justicia y de garantizar que los derechos humanos sean valorados y protegidos, debe cumplir con las garantías internacionalmente reconocidas de un juicio justo.”

Pero mientras la extradición de Fujimori y su próximo juicio en el Peru son signos esperanzadores y positivos de un creciente compromiso por el respeto de los derechos humanos y la justicia, este compromiso es aún frágil. El domingo, en Lima, el memorial en homenaje a las víctimas de violaciones a los derechos humanos “El Ojo que Llora”, fue atacado con pintura naranja, un color asociado a partidarios de Fujimori. El gobierno Peruano debe no sólo apoyar la existencia de un juicio justo e imparcial de su ex mandatario, sino también enviar un fuerte mensaje de que cualquier acción encaminada a obstruir la justicia en Perú no será tolerada

2.9.07

Ginzburg: "Quien piensa que la realidad es sólo lo que se toca no entiende nada"

Verdadero, falso, simulado, artificial son categorías que impactan sobre nuestra historia individual y social. Para captar los rasgos de una época hay que ser capaz de mirar sin anteojeras ni prejuicios.

Por Claudio Martyniuk
San Agustín comparó la belleza de la historia humana con una melodía. La sucesión de los siglos sería como un canto que nadie escucha en su totalidad. Siguiendo huellas, recurriendo a metáforas, empleando perspectivas que acercan lo extraño o provocan extrañamiento sobre lo familiar, el historiador Carlo Ginzburg persigue la reconstrucción de fragmentos diversos de esa música.

Mueve sus reflexiones con el ritmo justo, conjuga erudición con profundidad y da cuerpo a una nueva manera de pensar la historia. Esa mirada diferente se disfruta en el más conocido de sus libros, El queso y los gusanos (1976), en el que un pobre molinero friulano que termina quemado por la Inquisición encarna la tensión de toda una época entre la cultura popular y la oficial.

Ginzburg viajó a Buenos Aires invitado por la Carrera de Sociología de la UBA, que cumple cincuenta años de existencia. Lo hizo con el apoyo de la Fundación OSDE, CLACSO y el Ministerio de Educación. Entre carteles políticos y académicos, en la sede de Sociología, se emociona cuando se le recuerda a su madre, la escritora Natalia Ginzburg, y se apasiona en la reflexión.


Dada su manera tan original de abordar la historia, ¿qué lazos encuentra entre el arte y el conocimiento?

Creo que hay una relación compleja, y es decisivo el tema de la diferencia entre lo que es ficticio, lo que es inventado y lo que es verdadero. Es necesario distinguir esos dos planos para poder ver mejor su relación. Apasiona pensar que algo totalmente inventado pueda tener un valor cognoscitivo, no porque es inventado sino justamente por qué fue inventado. Una poesía, un cuadro nos proponen mundos imaginarios, pero nos pueden decir algo importante sobre el mundo real. Esa relación está en el centro de mi último libro - El hilo y las huellas. Verdadero, falso, simulado-. La relación entre esos tres ámbitos -verdadero, falso, simulado- no es central solamente en la reflexión de los historiadores sino que está en el centro de la vida cotidiana de todos. No se puede ignorar ninguno de esos términos ni confundirlos. Lo simulado que se presenta como verdadero es falso. Pero lo artificial que se propone como artificial es artificial, pero igualmente tiene una relación con la verdad.


Verdadero, falso, simulado... ¿dónde habita lo sagrado en el mundo contemporáneo? ¿La religión monopoliza lo sagrado?

La religión no tiene el monopolio de lo sagrado, aun cuando trate de afirmarlo. Hay una competencia por lo sagrado. Hay una tendencia, a la que me resisto, de considerar la secularización como un fenómeno concluido. El mundo en el que vivimos es el mundo desencantado, dijo Max Weber. Yo creo que las cosas no son así. La globalización es un fenómeno iniciado hace ya mucho tiempo y no concluido, que desde el comienzo significó una verdadera lucha con lo sagrado: la construcción de un mundo inmune a lo sagrado, depurado de lo sagrado; la construcción potencial de un mundo que entra en el dominio de lo sagrado y lo hace propio. La secularización está en conflicto con las religiones; de manera visible con los llamados fundamentalismos.


Usted analizó "un lapsus" de Juan Pablo II: el llamar a los judíos "nuestros hermanos mayores". ¿Hay antisemitismo en el catolicismo?

Yo creo que la postura de Wojtyla era totalmente hostil al antisemitismo. Elementos de una antigua polémica antijudía reaparecieron contra su voluntad, y eso muestra qué raíces profundas tiene. El conflicto entre cristianismo y judaísmo se encuentra en las raíces mismas del cristianismo. Es quizás imposible suprimirlo. Por eso me resisto siempre a la expresión "judeo-cristiano" que es mistificadora porque propone una continuidad que existe solamente desde el punto de vista cristiano, como enmascaramiento del conflicto. Pero el conflicto es verdadero desde ambas partes. Los conflictos no son necesariamente violentos. Hay un modo de controlar el conflicto, que es lo que se ha hecho. Y ciertamente hay elementos importantes en esa dirección. Pero me parece que el conflicto está en las raíces. Hay una competencia, pero es más que eso. A niveles diversos existe, sí, antisemitismo. En el antisemitismo existen también elementos fantasmáticos. Existe un tipo de hostilidad que como otras hostilidades se nutre de lo que existe o de lo que no existe. Por lo tanto, de la presencia física del judío o de un judío fantasmático. Porque quien piensa que la realidad está hecha sólo de lo que se toca no entiende nada de la realidad.


Usted investigó, en La historia nocturna, los demonios y embrujos del pasado. ¿El chivo expiatorio se construye en la actualidad del mismo modo?

La analogía me parece importante como instrumento de reflexión. ¿Pero, por qué esa analogía me parece a veces poco interesante? Porque creo que sirvió para deslegitimar ciertas formas de persecución política. Y pienso en Estados Unidos durante el período de McCarthy cuando Arthur Miller escribió Las brujas de Salem. Era una forma de deslegitimación, pero volver a proponerla mecánicamente es poco interesante. Se dice: existe intolerancia, existe la búsqueda del chivo expiatorio. Pero es una analogía genérica. Las analogías interesantes son las que nos hacen ver algo inesperado en un fenómeno. En este caso, todo me parece descontado. Había intolerancia entonces, hay intolerancia ahora, por lo tanto, la búsqueda del chivo expiatorio continúa. ¿Por qué "ése" y no otro chivo expiatorio? Aquí la pregunta comienza a tornarse distinta. Entonces, ya no las brujas, ¿pero quién las reemplaza? Puede ser un chivo expiatorio inexistente. Eso es interesante. Alguien puede decirme que tampoco las brujas existían. Las brujas no existían pero en parte fueron construidas. Había un correspondiente social. Entonces, cuando leo que en Japón Los protocolos de los Sabios de Sión es un libro muy leído, me pregunto ¿cómo es posible? Ahí no hay judíos. No es la búsqueda de un chivo expiatorio local. Quizá se trata de un chivo expiatorio fantasmático, a escala internacional.



En la Argentina, ante los modos de conocer y representar los crímenes de la dictadura militar, algunos intelectuales se pronunciaron críticamente por el exceso de utilización de testimonios personales. ¿El documento ofrecería bases más firmes para conocer el pasado?

Le respondo de una manera un poco indirecta. A mediados de los años 70, hubo en Bolonia un congreso sobre las fuentes orales. Participando como oyente, en un momento intervine. Miren, dije, acá se habla de fuentes orales. A doscientos metros, en el archivo estatal de Bolonia se conservan un centenar de volúmenes que son transcripciones de fuentes orales, hechas por jueces de los siglos XVI a XVIII. Procesos criminales. Ahí hay fuentes orales que fueron transcriptas. Cuando se dice que no se puede hacer la historia sólo con fuentes orales y que hacen falta documentos, hay que recordar que hay kilómetros de documentos que son transcripciones de fuentes orales. Entonces, el problema no es elegir entre fuentes orales y fuentes escritas, porque también las fuentes orales pueden dejar una huella escrita. El problema es cómo leer las distintas fuentes. Si uno leyese en forma acrítica las fuentes orales -o cualquier fuente - como un testimonio de verdad y punto, haría una lectura ingenua. El problema es siempre leer entre las líneas del documento. Pero no hay una receta preestablecida. Frente a cada documento hay que problematizar qué está diciendo esa fuente.


Eso me recuerda que usted comparó al historiador con Sherlock Holmes.

Sí, en un ensayo -Huellas. Raíces de un paradigma indiciario-, sobre el que sigo reflexionando. El año pasado hubo un congreso en Francia sobre ese texto de hace veinticinco años. Ahora salió un volumen donde hay discusiones nacidas de él, y yo escribí una especie de post-scriptum, porque fue un ensayo que orientó mi trabajo de muchas maneras. Por ejemplo, hacia el problema de la prueba. Yo ahí hablo de los indicios, pero no de las pruebas. Eso me impactó al releer el ensayo. Está el descubrimiento de la importancia de los indicios, pero no hay ninguna reflexión sobre el problema de las pruebas. Y esto pasó a ser importantísimo para mí.


¿Por qué?

Porque se produjo la aparición de una actitud escéptica, ligada al posmodernismo, para la cual la distinción entre narraciones de ficción y narraciones históricas se volvió más confusa. Las consecuencias científicas, morales y políticas de esa postura son muy serias, y por eso sentí la necesidad de intervenir, centrándome en el problema de la prueba. Y además hubo un elemento personal. Adriano Sofri, un amigo mío que era líder de un movimiento de extrema izquierda en los años 70, fue incriminado como instigador de un homicidio político y fue condenado a 22 años de prisión. Después del primer proceso escribí El juez y el historiador, donde analizo las actas de ese juicio contemporáneo. Ahí trato de demostrar que no había ninguna prueba en contra de mi amigo. Pero incluyo la reflexión dentro de un problema más general: el problema aún no zanjado de las relaciones entre juez e historiador.

Copyright Clarín, 2 / 09 / 2007